A tu per tu con ANDREA TINTERRI
Andrea Tinterri è Project Manager dei programmi “Neuroscienze per l’apprendimento” e “Game-based learning” presso Future Education Modena (www.fem.digital). È assegnista di ricerca in “Evidence-based learning per l'innovazione didattica” presso l’Università di Modena e Reggio Emilia (M-PED/04) e docente del modulo specialistico in “Dimensioni psicologiche del gioco e tecniche di game design” del corso di laurea in Psicologia del benessere dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ha una laurea specialistica in neuroscienze cognitive (Università Vita-Salute San Raffaele) e un dottorato di ricerca in Neurobiologia dello sviluppo (Université Pierre et Marie Curie, Parigi).
- Qual è il tuo rapporto con il gioco?
Come tutti, gioco da quando sono nato! La mia fortuna è quella di non aver mai smesso di farlo, in una forma o nell’altra - per svago, per interesse e, ultimamente, anche per lavoro (o almeno, questa è la scusa che uso per giustificare i miei acquisti!).
- Da dove nasce il tuo interesse per il gioco?
Probabilmente dall’invidia: ricordo, da piccolo, le mie visite alle case di parenti e amici in possesso delle meravigliose console dell’epoca; soprattutto il NES di mia cugina, sul quale giocavamo a Super Mario Bros. e Dr. Mario. Si faceva “una vita a testa”, e le mie duravano sempre troppo poco.
Per quanto riguarda i giochi non digitali, come per tanti della mia generazione il punto di ingresso è stato Magic e poi, ai tempi dell’Università, ho conosciuto i “classici moderni” come Catan e Puerto Rico.
Poi, in linea con la mia indole di ricercatore, ho voluto capire come e perché funzionasse la magia del gioco, interessandomi al game design e agli aspetti psicologici e cognitivi del gioco
- Qual è il tuo gioco preferito e perché.
Che domanda impegnativa! Nell’impossibilità di rispondere, cito un titolo relativamente poco celebre: Psychonauts, un gioco di Double Fine per Playstation 2 e PC. In questo gioco, un adolescente con poteri psichici deve sventare una misteriosa cospirazione che ha lobotomizzato i suoi amici, lasciandoli in stato catatonico davanti alla TV. Per farlo, deve viaggiare nella mente di una galleria di personaggi “svitati”: attrici teatrali depresse, persone con mania di persecuzione, mitomani… Tutto quanto raccontato con grande ironia e personalità. Un’esperienza che unisce grande giocabilità, viaggi nella mente e umorismo; un mix che lo rende uno dei miei giochi preferiti di sempre!
- In FEM vi occupate di didattica e digitale, pensi che il gioco potrebbe avere un ruolo in ciò? quale?
Certo che sì! Che il gioco possa essere un potente strumento di apprendimento è ormai dimostrato da un grande numero di studi scientifici. Il punto ancora da chiarire è: qual è il potenziale del gioco come strumento educativo, non solo per lo sviluppo di abilità trasversali ma anche in ambito disciplinare?
A questo proposito, in FEM stiamo lavorando ad un progetto in cui il gioco è utilizzato, nelle sue forme digitali e non, come strumento e come ambiente di apprendimento, indagandone al contempo l’efficacia rispetto ad altre forme di didattica.
- Quale potrebbe essere il ruolo del gioco nelle neuroscienze?
Gli ambiti di applicazione del gioco nelle neuroscienze sono già molteplici: da ausilio per la raccolta di dati e strumento per la partecipazione della comunità alla ricerca (basti pensare all’esperienza di Sea Hero Quest per la ricerca sulla malattia di Alzheimer) all’impiego in ambito riabilitativo, i benefici dell’utilizzo del gioco nella ricerca sul cervello sono evidenti.
- In che modo il gioco supporta le abilità cognitive?
Il nostro cervello è costantemente alla ricerca di nuove cose da imparare. Durante tutto l’arco della nostra vita, estrapoliamo informazioni dal mondo che ci circonda, identificando pattern nella miriade di stimoli che percepiamo con i nostri sensi e trasformandoli in conoscenze, abilità, convinzioni: tutto ciò che usiamo per guidare i nostri comportamenti futuri.
Il gioco è uno strumento eccellente di sviluppo cognitivo per varie ragioni. In generale, il gioco offre dei modelli della realtà in cui il solitamente il pattern di apprendimento è spogliato di elementi non necessari (come nel caso del Tetris, che è un puro esercizio di rotazione mentale di oggetti) e può essere ripetuto più e più volte, senza rischi per la sopravvivenza dell’individuo (posso far saltare Mario attraverso un burrone senza mettere in pericolo la mia vita).
Un’altra caratteristica desiderabile del gioco è la sua capacità di adattarsi al livello di abilità del giocatore, mantenendo l’esperienza interessante (cioè capace di generare apprendimento) all’aumentare delle capacità; basti pensare a giochi come gli scacchi o il Go che possono essere giocati per una vita senza mai annoiare. Infine, un aspetto dei giochi che piace tanto al nostro cervello è la presenza costante di feedback: quando il gioco è ben fatto, ad ogni azione corrisponde una conseguenza visibile, che il cervello utilizza per apprendere e modificare le proprie azioni future.
- In un presente dove la tecnologia ci pone in una condizione di costante sovraccarico d’informazioni che pare ineluttabile, il gioco potrebbe aiutare a sviluppare delle strategie per adattarsi a questa “nuova” realtà?
Sicuramente molti giochi, sia digitali che non, allenano la “discriminazione rapida”, cioè la capacità di individuare rapidamente le informazioni rilevanti tra quelle che non lo sono (un esempio di questo tipo di giochi è Dobble). Quindi un potenziale legame, almeno a livello percettivo, c’è. Il discorso del sovraccarico informativo però è naturalmente molto più complesso di così e temo di non essere la persona più adatta per rispondere a questa domanda.
- Che ruolo ricoprono le abilità percettive nella giocabilità di un gioco?
Un ruolo decisivo. In fin dei conti, ogni esperienza, di gioco e non, è mediata dai nostri sensi. Un esempio che viene spesso citato è: l’esperienza di gioco di Splendor sarebbe la stessa se al posto delle fiches si usassero delle carte o dei token di cartone?
Negli ultimi anni è stata posta molta enfasi sulla ricerca ed il design di interfacce in grado di facilitare e favorire l’esperienza di gioco, partendo dai principi esplorati dalla Gestalt ed integrandoli con le evidenze sperimentali provenienti dalle neuroscienze. Questo ha portato ad una grossa riflessione sull’importanza delle “affordances” nel design di un gioco – basti guardare allo sviluppo di discipline come la User Experience (UX) nei videogiochi o, più semplicemente, all’enfasi che viene sempre più posta sui materiali e la componentistica nei giochi da tavolo.
- Ci piacerebbe vedere le neuroscienze maggiormente coinvolte nella ricerca sul gioco come mezzo riabilitativo/educativo. Come pensi che questo potrebbe verificarsi e quale aspetto pensi che dovrebbe essere maggiormente approfondito?
C’è un aspetto che va precisato per rispondere a questa domanda: i metodi di misurazione delle neuroscienze cognitive (risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogramma, etc.) sono in grado di misurare eventi che occorrono nella nostra testa nell’ordine dei secondi (fMRI) o dei millisecondi (EEG). Questa finestra temporale è utile per misurare cambiamenti che riguardano, per esempio, le performance in particolari compiti cognitivi o fornire misurazioni indirette dell’attivazione di determinate aree della corteccia cerebrale legate allo svolgimento di determinati compiti. Pertanto, questi strumenti si prestano bene per analizzare l’effetto del gioco su determinate abilità cognitive.
Tuttavia, non è detto che le misure effettuabili e le scale temporali rilevate da questi strumenti siano le più rilevanti per rispondere a domande che hanno a che fare con l’apprendimento e l’educazione. Infatti, l’apprendimento è un fenomeno complesso, che comprende variabili culturali, emotive, fisiologiche, cognitive e ambientali; questo richiede pertanto che la domanda di ricerca sia estremamente mirata e il design sperimentale adeguato (cosa che è generalmente difficoltosa quando si studia l’apprendimento).
Non a caso, la maggior parte di ciò che sappiamo attualmente a proposito dei meccanismi di apprendimento deriva dalla psicologia cognitiva e dalla neurobiologia piuttosto che dalle neuroscienze cognitive. È probabile che miglioramenti nella portabilità delle tecnologie e degli strumenti di misura consentiranno una sempre maggiore integrazione degli strumenti di ricerca neuroscientifici nel campo dell’apprendimento: per esempio, lo sviluppo e l’adozione di strumenti meno invasivi potrà consentire misurazioni significative anche in contesti più “naturali” rispetto a quello di un laboratorio di neuroscienze; tuttavia, per il momento è importante mantenere i piedi per terra.
- Per concludere, da neuro scienziato, che spunto vorresti dare al mondo ludico?
Non ci sono dubbi: giocare fa bene al nostro cervello, a tutti, a tutte le età. L’importante è farlo con consapevolezza e coscienza critica.
I contatti di Andrea:
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